Oggi, in Italia, 1 milione e 346 mila minori (il 13,6% dei bambini e degli adolescenti in Italia) vivono in condizioni di povertà assoluta, ben 209mila in più rispetto all’anno precedente. E Milano non si sottrae a questo declino.

La pandemia oggi ha reso ancora più evidente che la povertà ha anche a che fare con l’accesso alla tecnologia digitale. E qui che soffia il vento della modernità ed è qui che emergono in modo ancora più plastico ed evidente alcune differenze tra gli studenti: Il digitale infatti non è più un vezzo o un elemento accessorio, ma è la condizione di possibilità per non rimanere indietro nella corsa verso il futuro.

E’ stata pubblicata in questi giorni da  Save the Children e Cremit (il centro specialistico dell’Università Cattolica sull’educazione digitale) una ricerca che analizza proprio il fenomeno nuovo della povertà educativa digitale: l’emergenza sanitaria ha spinto molto avanti la frontiera della tecnologia digitale ed ha marcato in maniera implacabile le diseguaglianze tra bambini e ragazzi che hanno provenienze socio-economiche diverse.

Non è solo una questione di device, che in molti casi sono stai procurati, ma riguarda fattori che hanno a che fare con l’ineluttabilità della condizione famigliare: una casa piccola e affollata che impedisce di trovare lo spazio adeguato per lo studio, la mancanza di connessione veloce (1 su 5 dei minori presi in esame), l’assenza di competenze da parte dei genitori, la mancanza di un alfabetizzazione digitale di base, l’uso ludico-dispersivo e non focalizzato della tecnologia.

Ciò che emerge è che in Italia si protrae nei figli il livello curriculare, economico e sociale dei genitori, e nell’era del digitale questo avviene in modo ancora più schiacciante: perché le famiglie più vulnerabili sono quelle in cui mancano le competenze, gli ambienti e le attenzioni ed è fragile l’asse tra tecnologia e educazione all’utilizzo sano degli strumenti.

E la scuola, ahinoi!, non riduce queste differenze (in questo caso “digitali”: tanto per dare un dato il 70% delle scuole pre-covid non aveva mai o quasi mai utilizzato il pc in classe). Queste differenze infatti attraversano gli anni della scuola dell’obbligo giungendo intonse nell’età adulta, e non vengono per nulla scalfite da questo modello didattico ed educativo esclusivamente teso alla trasmissione di dati. Ma è una lezione antica questa che non riusciamo a recepire:  non si tratta di riempire vasi, ma di accendere fuochi; e quindi di lavorare nello sviluppo di competenze, prima di tutte quelle di collaborazione e cooperazione (oggi così accentuate dal digitale), per avere una scuola più collegata con il mondo del lavoro e con le competenze che qui sono richieste, in primis appunto quelle tecnologiche.

A Milano la povertà educativa e quella digitale esplodono nelle periferie, nei quartieri dell’ERP e nei palazzoni dell’ALER. Dentro famiglie in cui non si accende la speranza di futuro nemmeno nella prospettiva transgenerazionale. Che fare? Ascoltare la voce di quella parte di  città che va più lenta, che sta nella ferità della vulnerabilità. Alcune luci sono state accese, con l’impegno di tante e di tanti, soprattutto dal mondo dell’associazionismo e della cooperazione, che in questo mesi ha distribuito centinaia di device ed ha seguito migliaia di ragazze-i. Ma ancora non basta. E lo sforzo amministrativo e istituzionale del futuro prossimo, dovrà concentrarsi innanzitutto qui.

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