Carissima-o,
sono Valerio Pedroni, voglio raccontarti di un progetto che sta nascendo a Milano: “Persona per persona”.
Un progetto civico che, in questo momento particolare che stiamo attraversando, vuole affermare il valore dell’inter-dipendenza e la necessità di ripensare il paradigma del nostro tempo puntando sulle “reti vitali” e sulla coesione solidale tra le persone.
Un progetto che vuole raccogliere i contributi di tutti coloro che credono che questo non sia il “tempo dell’attesa”, in cui nelle restrizioni dell’emergenza sanitaria si chiudono gli occhi e si stringono i denti per ritornare esattamente a come eravamo prima. Magari il prima possibile.
“Persona per persona” perché le comunità non sono un assembramento di individui-numeri, e perché ogni singolo ha un valore imprescindibile, anche e soprattutto il più piccolo e il più fragile: come in ogni moltiplicazione se uno va a zero, si annulla tutto il sistema e a zero andiamo tutti quanti.
“Persona per persona”, mano per mano, perché il mondo nuovo che si apre dopo la tempesta pandemica ci chiede di unire l’io al noi, le generazioni dei figli con quelle dei nonni, ma anche l’umano con il cosmo, ritrovando un progetto di convivenza civile che metta al centro la costruzione del bene comune e di una città che sentiamo come “nostra” e che sia veramente “abitabile”, anche e soprattutto per chi fa più fatica.
Questo articolo è l’inaugurazione di uno spazio che ospiterà la voce di chi vuole provare ad immaginare un tempo nuovo, in cui dopo il diluvio sia possibile piantare e far crescere una nuova sensibilità: nuovi progetti di sviluppo sostenibili, nuovi spazi di impegno comune in cui a guidare non sia lo spirito del profitto e dell’accumulo, ma quello della qualità: dell’ambiente, delle relazioni, degli spazi comuni nel centro-città come nelle periferie più difficili, delle attività per l’infanzia e la famiglia, della cura agli anziani e ai più fragili, dei progetti per gli adolescenti e per i giovani.
Uno spazio per raccontare ed immaginare insieme una città che ci assomigli sempre di più, PERSONA PER PERSONA.
La mia primogenita di 7 anni ha un bellissimo libro che racconta di una famiglia che va “a caccia dell’orso” e, per raggiungerlo, si trova pagina dopo pagina ad affrontare diverse insidie: la palude, un fiume freddo, il bosco fitto etc. Ed ogni volta capisce che non può passare sopra l’insidia e nemmeno sotto, deve passarci per forza nel mezzo.
E così ostacolo dopo ostacolo la storia insegna al bambino che i problemi della vita vanno attraversati, non c’è altro modo per andare oltre: bisogna proprio passarci dentro.
E così ostacolo dopo ostacolo la storia insegna al bambino che i problemi della vita vanno attraversati, non c’è altro modo per andare oltre: bisogna proprio passarci dentro.
E’ un insegnamento grande, che l’essere umano tende a dimenticare e a dover ogni volta ri-cordare (letteralmente: riportare vicino al cuore). E così la pandemia ce lo ha ri-cordato in modo così netto in questa seconda ondata: occorre attraversare questo tempo provando a capire che cosa possa tutta questa fatica insegnare alla nostra Milano e ai suoi abitanti, oggi preoccupati, impoveriti e anche un po’ demoralizzati. Speravamo che la tempesta perfetta fosse alle spalle, ed invece eccola, ancora lì davanti a dirci che il tempo della traversata non è ancora concluso.
No, non è concluso. Non è concluso quel forte rallentamento al sistema economico-finanziario dell’area urbana, proiettata verso scenari galattici e internazionali. Non è conclusa questa fase che consuma posti di lavoro e crea sacche nuove di povertà, rischiando di travolgere l’intero sistema sociale. Non è concluso il tempo in cui i confini delle nostre vite si restringono alle nostre mura di casa o alle strade del nostro quartiere. E non basta la pazienza. Perché qui la pazienza è l’atteggiamento di attesa passiva di chi non si pone la questione del cambiamento, ma spera che la bufera passi e si possa tornare, presto o tardi, come prima. Pazienza impaziente.
Ma la pazienza si è esaurita nella prima ondata (della mareggiata pandemica). Come a dire che quando l’acqua si alza sopra la bocca troppo a lungo non si tratta più di trattenere il respiro, ma di sviluppare le branchie. Oggi siamo chiamati ad un modo nuovo di “stare nelle cose”, di ritrovare gli affetti più cari, di sfoltire ciò che è superfluo e riguadagnare quell’essenziale “invisibile agli occhi”.
E l’essenziale sono i “legami essenziali”, la rete vitale che ci salva dall’individualismo, e ci ri-corda che siamo l’uno per l’altro, “persona per persona”.
Perché “persona” è molto più di “individuo”: è le sue relazioni, è la consapevolezza che nel cammino in avanti, nessuno vada perso per strada. E’ coscienza che l’individuo ce la fa, solo se è parte di una comunità coesa, solida perché solidale, capace nei momenti più duri di stringersi intorno alle sue fragilità.
I più fragili. A cominciare dagli anziani, che non sono una categoria sociale generica, ma sono “i nostri genitori”, “i nonni dei nostri figli” che oggi spesso continuano a sostenere con la loro amorevole cura un pezzo importante del sistema del welfare. E allo stesso modo i giovani, a cui è stato in qualche modo negato di poter vivere questa loro età che ha bisogno come il pane di contatto fisico e socialità. Per non parlare delle famiglie che si sono trovate senza un reddito, o con un reddito insufficiente per mantenere un livello di vita dignitoso. Ma anche qui non sono genericamente le “famiglie in difficoltà” ma “mia sorella”, “il mio amico”, “il mio vicino di casa”, “la mia ex-collega”, piombati d’improvviso tra quelli che non ce la stanno facendo, magari non solo sul lato economico, ma della tenuta psicologica e sociale.
Perché “persona” è molto più di “individuo”: è le sue relazioni, è la consapevolezza che nel cammino in avanti, nessuno vada perso per strada. E’ coscienza che l’individuo ce la fa, solo se è parte di una comunità coesa, solida perché solidale, capace nei momenti più duri di stringersi intorno alle sue fragilità.
I più fragili. A cominciare dagli anziani, che non sono una categoria sociale generica, ma sono “i nostri genitori”, “i nonni dei nostri figli” che oggi spesso continuano a sostenere con la loro amorevole cura un pezzo importante del sistema del welfare. E allo stesso modo i giovani, a cui è stato in qualche modo negato di poter vivere questa loro età che ha bisogno come il pane di contatto fisico e socialità. Per non parlare delle famiglie che si sono trovate senza un reddito, o con un reddito insufficiente per mantenere un livello di vita dignitoso. Ma anche qui non sono genericamente le “famiglie in difficoltà” ma “mia sorella”, “il mio amico”, “il mio vicino di casa”, “la mia ex-collega”, piombati d’improvviso tra quelli che non ce la stanno facendo, magari non solo sul lato economico, ma della tenuta psicologica e sociale.
E così ci siamo stretti intorno alle nostre fragilità, perché ci siamo riconosciuti tutti più vulnerabili. E abbiamo capito un po’ più di prima che l’individuo ce la fa solo se si riconosce vulnerabile esattamente come gli altri, inter-dipendente dagli altri. Appunto, se si riconosce una “persona”, tra le persone e per le persone; se si riconosce parte di una comunità che non perde per strada nessuno, una comunità appunto “persona per persona”.
Non è un caso se sono aumentate le persone che hanno deciso di impegnarsi per gli altri e se è cresciuta la consapevolezza che le realtà del terzo settore (associazioni, cooperative, fondazioni) siano l’architrave del nostro sistema sociale, irrinunciabili per una Milano in cui la solidarietà non è accessoria, ma è condizione stessa della vita delle comunità, dei quartieri e quindi della città nel suo insieme. Perché l’investimento sulla qualificazione dei quartieri e sul benessere dei residenti è un tema anche del sistema produttivo, che così diventa più credibile e più solido.
Ed è evidente che il vero nemico di questo tempo è proprio l’individualismo, che crea isolamento e solitudine, l’iper-individualismo che possiamo sfidare e vincere solo puntando sulle “persone” e sulle “comunità” territoriali, perseguendo il modello di una città che investa un grande sforzo civile e politico sulla mutualità, sull’alleanza tra i vari mondi (istituzioni, sistema produttivo e realtà dell’impegno civico) per generare qualità della vita o, detto ancora meglio, “vita di qualità”, per ciascuno.
Ed è evidente che il vero nemico di questo tempo è proprio l’individualismo, che crea isolamento e solitudine, l’iper-individualismo che possiamo sfidare e vincere solo puntando sulle “persone” e sulle “comunità” territoriali, perseguendo il modello di una città che investa un grande sforzo civile e politico sulla mutualità, sull’alleanza tra i vari mondi (istituzioni, sistema produttivo e realtà dell’impegno civico) per generare qualità della vita o, detto ancora meglio, “vita di qualità”, per ciascuno.
Al mito dell’individuo che ce la fa da solo, alla cultura del profitto e dell’accumulo in cui conta la quantità a discapito della qualità, è necessario contrapporre una cultura dell’inter-dipendenza e della comunità. Perché è possibile “attraversare” la tempesta e uscirne migliori solo immaginando una città fatta di persone che si prendano a cuore le persone.